Quando la mia catena di librerie preferita ha tolto i divanetti, ho capito davvero che cos’è la semiotica dello spazio. Sfogli i libri in piedi, però i libri sono tanti e dopo poco ti senti come un ospite sulla Singer, la sedia per visite brevissime di Munari.
Poi hai i musei, uno fra tutti lo GNAM di Roma, che creano spazi di sosta collocando dei pouf al centro di due opere ciclopiche. Il museo ti induce a fare una cosa che vuole lui e prende voce: ti sta dicendo, nella sua lingua, che ti siedi lì perché quelle due opere sono importanti, non uscire da lì senza averle viste. La cosa regola anche gli arredi urbani: le panchine nelle vie dello shopping non sono messe a caso.
Tutto questo probabilmente chi legge lo sa già, c’è una letteratura sconfinata su questi argomenti e sarei la persona più noiosa e meno competente per affrontarli, ma il concetto ci serve per arrivare ad argomento, cioè alla lettura dell’evoluzione dei luoghi espositivi.
Arte che dà parola a delle mura.
Strumento potentissimo con cui qualsiasi spazio diventa un luogo, qualsiasi non-luogo diventa luogo. Persino il metaverso, che è già di suo qualcosa da finire in terapia per via della questione ontologica, ma che con l’Arte assume addirittura concretezza.
Tutto ciò che noi pensiamo di fare per dare senso agli spazi che abitiamo, spostando arredi o abbattendo pareti, viene inghiottito dal visivo folgorante dell’Arte quando è presente, come un buco nero che annulla il resto o che, al resto, chiede solo di farsi da parte perché ha bisogno di aria. Un’opera ha bisogno, come si dice, di respiro. Più vuoto ha attorno, più può espandersi.
L’Arte non fa vero placemaking, perché si impone. Va integrata con sapienza in un contesto non-convenzionale, giacché nel momento in cui collochiamo un’opera di arte visiva in uno spazio, improvvisamente esso si mette al servizio di quell’opera.
Il placemaker deve sempre restare la persona che guida il processo, un processo che sia calibrato, perché l’operazione di innesto dell’Arte visiva negli spazi è delicata, può rompere le cose. Può assorbire così tanta luce da togliere il senso al contorno.
Lo spazio può essere una parete o una stanza. Un giardino. Può essere un corridoio che non percorre mai nessuno e che per vedere le opere ci devi passare. Può essere un campo Rom in una vecchia fabbrica, come ha fatto il MAGR di Roma nel 2016. Dove le splendide opere murali ti conducevano all’interno di una voragine sociale e urbana a cui magari non avresti voluto pensare, davanti a cui solitamente cambiavi strada.
L’evoluzione degli spazi dell’Arte amplia le possibilità in modo esplosivo.
Da un lato probabilmente è corretto che resistano i percorsi didascalici nei musei-showroom, quelli delle permanenti tradizionali, quelli delle mostre didattiche.
Dall’altro, è giusto che l’Arte si impossessi degli spazi come una vegetazione, perché poi succedono cose buone e fantastiche come il museo di Jago a Naoli, nella Chiesa di Sant’Aspreno, che restituisce alla città una oggetto significativo chiuso da anni, che porta il Vomero o i Milanesi bene lì, alla Sanità, ora venite qui e guardate anche questa parte del mondo.
C’è poi il livello dell’interazione fra le opere e i loro spazi. Non più dei vuoti-ospitanti, ma dei vuoti attivi. Chi abbia visto le opere di Nicola Dusi Gobbetti nella mostra del 2022 al Museo Diocesano di Mantova, ha sentito imporre il silenzio ai visitatori dalle sue Mappe Cognitive, rosso su lenzuoli appesi come sindoni, mentre interrompevano come una preghiera brutale la sala vuota.
Per l’Arte che genera concetti di luogo mi servirò di Fausto delle Chiaie. Lo conobbi come lo conobbero tanti romani, cioè incrociandolo davanti all’Ara Pacis. All’apparenza un senza tetto, disegnava a terra delle sagome con il gesso (i classici contorni delle scene del crimine) parlottando da solo: quindi ovviamente mi fermai per conoscerlo. Su un muretto, il muretto di Fausto delle Chiaie, c’era la sua esposizione di opere, tutte di arte povera, che interagivano concettualmente con l’ambiente attorno. Lui sempre è stato lì, con le sue performance e le sue installazioni, volutamente ai piedi di un territorio dell’Arte che così facendo allo stesso tempo rinnegava e legittimava.
L’Arte, in questo caso specifico, aveva creato un nuovo luogo con il solo fatto di esistere nel non-luogo del camminamento ai piedi del museo. Operazione magistrale, certamente non l’unica, non la prima, ma meravigliosamente riuscita, di sfacciata dimostrazione muscolare di come il luogo non possa definire l’Arte, mentre l’Arte ha il potere di definire il luogo.
Il percorso per arrivare a questa consapevolezza passa attraverso il discernimento di che cosa sia manifattura o artigianato e di che cosa sia l’Arte vera. Il placemaker ha il dovere di capirlo, deve appartenergli questa competenza.
Non tutti sono artisti. Tutti, però, possono essere parte di uno spazio espositivo diffuso, come nodi di una rete di significanti, di oggetti e cose che attengono all’Arte e al bello.
Ospitare opere in spazi fisici o virtuali e parlarne, metterle all’interno di contesti non attinenti in modo ragionato, crea dei percorsi di senso, realizza un umanesimo applicato che potrebbe divenire l’arma di consapevolezza di massa per un pianeta che va a rotoli.